Nemmeno due anni fa, sul finire del 2020, sollecitato da Mirna Manni, che mi invitava a riflettere sulle sue opere esposte a Sutri, in un’importante mostra tematica dagli ampi confini temporali, buttavo giù in rapidità alcune righe che, al di là della contingenza e delle analisi che il lavoro di Mirna allora mi suggeriva, contenevano una visione aperta e propositiva sul futuro. Un futuro che con la pandemia si mostrava ancora più fragile e incerto, ma con la ferma convinzione che dopo la tragedia l’umanità si sarebbe ritrovata. In fondo nella percezione comune, quel periodo è stato vissuto come un viaggio al temine della notte, dove dopo l’oscurità c’è sempre la speranza di un giorno nuovo. Chiudevo quel testo citando proprio una frase di poetica di Mirna a cui aggiungevo una mia chiosa a margine: «”Da qui la consapevolezza [scrive Mirna], che di eterno nulla può essere realizzato e che si è inferiori alla natura, con la quale è preferibile accordarsi, superando il solito conflitto per convivere in sintonia". Una superiorità che in questi ultimi mesi si è palesata con tutta la sua virulenta forza, sperando almeno che l’uomo abbia imparato cosa significa finalmente il rispetto verso gli altri e verso il mondo che lo ospita».
Devo mio malgrado ammettere, rileggendo queste righe conclusive, che la prospettiva di rispetto nei confronti del mondo e degli altri, a distanza di pochi mesi, se possibile è peggiorata. Pier Paolo Pasolini - di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita e mai come ora avvertiamo la mancanza della sua lucida visione del mondo - diceva che la speranza era in fondo l’alibi per lasciare tutto così com’è, e che lui era riuscito negli anni ad abolire dal suo vocabolario questa parola, vivendo senza più prospettive, giorno per giorno. A noi, che non siamo poeti né intellettuali, resta ancora difficile non immaginare il domani, e il pensiero che la prospettiva di cambiamento non possa esse un elemento all’ordine del giorno, ci rende di fatto impotenti. A questo serve l’arte, a vedere ciò che non si vede, a immaginare ciò che potrebbe essere e, in qualche modo, a tracciare una linea verso la quale tendere. Ho già definito in altra occasione l’artista l’essere straordinario per definizione, proprio per questa sua rara capacità di delineare orizzonti inediti, per la sua sensibilità emozionale che sa registrare e trascrivere in forma visiva, plastica o uditiva, ciò che l’occhio non è capace di percepire da solo e la mente fatica a comprendere oltre che ad immaginare.
I lavori di Mirna Manni da sempre impongono riflessioni sul presente, sul rapporto uomo natura interrogandosi sul riassetto di forze per un nuovo equilibrio, adottando un elemento naturale come la terra, per definire il sentimento della realtà.
Le sue ultime due installazioni, Deformation everywhere (2022) e Natura violata (2021) – esposte rispettivamente alle Biennali di Frascati V edizione di BACC 2022 Vedere l’invisibile e di Sutri, Ethos Keramikos 2022 – sono presentate per la prima volta insieme a Deruta, presso Freemocco. Al cospetto di queste due opere si può cogliere l’esito ultimo di un percorso di esperienze artistiche maturate dalla scultrice di Tuscania nel corso di quasi un ventennio di produzione. Un percorso che è possibile ripercorrere a ritroso, attraverso le pagine di questo catalogo, dove ci si accorgerà infatti della coerenza non solo tematica, ma prevalentemente linguistica, che Mirna ha nell’uso di alcune costanti costruttive sviluppate negli anni per elaborare la propria scultura.
Gli elementi di verticalità, ad esempio, sono una prassi che si ripete nelle sue installazioni, in cui l’artista costruisce per sovrapposizione di elementi, forme prevalentemente organiche superando il limite tecnico delle altezze che nella scultura ceramica è imposto spesso dai forni di cottura. Uno slancio verticale, quasi a voler entrare alla pari nello spettro visivo con lo sguardo umano, lo si ritrova, in forme diverse, in opere come: Trittico (2003); Ritrovamento 1, 2, 3 (2007); Sedimenti s’incavano nel corpo sensibile (2014); La Croix (2017); Corporeitas (2017), e anche in un’opera non assemblata, ma organicamente unita come Cosmi d’attesa (2017).
Opere che nella loro forma sembrano poter essere suggerite all’artista direttamente dalle forme elementari della natura; riecheggiano bozzoli e crisalidi pronte a schiudersi e liberare una nuova bellezza nel mondo, semi pronti a sbocciare per generare nuove radici, diverse identità e appartenenza. Parlare attraverso le forme di natura, sembra essere per Mirna un mezzo per ampliare la narrazione, oltrepassare il messaggio puramente visivo approdando a quello metaforico simbolico. Sono forme organiche che recentemente l’artista ha declinato anche su tela, come: Dentro l’imbrunire (2022), che dà anche il titolo a questa mostra, e la monumentale Light and nature (2022), in cui la rigogliosità delle forme, così piene e turgide, esprime ancora la forza positiva e germinale del seme nella sua vivace vitalità generativa.
La natura e i cromatismi luminosi sono per l’artista il mezzo attraverso cui affronta, con rara capacità simbolica, questioni sociali e politiche di stringente attualità. Un linguaggio plastico silenzioso, riflessivo, al di fuori dei chiacchiericci modaioli o di perizie tecniche sofisticate, con questa ricetta Mirna centra con semplicità il bersaglio che vuole colpire con la sua scultura.
Alla luce di questo sguardo naturale si pone anche l’altra costante linguistica nella produzione della scultrice che è il rapporto ambientale. Le sue opere non sono mai imposte in una visione rigida e statica, ma dialogano e avvolgono lo spazio, lo cercano animandolo stimolando l’osservatore a entrare nell’opera, costruirne punti di visione alternativi, esserne in qualche modo parte attiva con la sua presenza e forse anche con la sua sola ombra. Un’ombra scura, che cela azioni e svela presenze. In questo senso la scultrice tende a trasmettere l’etica contenuta nei temi indagati nelle singole opere alla comunità, in una sorta di responsabilità collettiva, dove nessuno può sottrarsi chiamandosi fuori della propria azione. Il senso spaziale delle sue installazioni, che diviene invito alla partecipazione, è presente in quasi tutte le sue opere citate poco sopra, ed anche in elaborazioni più complesse come: Forms and roots, (2018); Habitant, (2017); Così filano le Parche, (2011).
Altri due elementi correlati: l’aculeo e la deformazione, appaiono come strumenti espressivi di forte comunicazione nella sintassi plastica della scultrice. L’aculeo è lo strumento che trafigge e vìola i corpi e i volumi, risucchiando da dentro la forma originaria, privando l’anima e lasciando il vuoto che deforma l’immagine. La deformazione è appunto la conseguenza dell’azione, qualcosa che arriva naturalmente, ma senza sapere fino a dove può incidere, lasciando sorpresi gli osservatori alla visione finale. In questo senso la scultura di Mirna rientra all’interno di un linguaggio espressionista che utilizza volutamente l’emozione deformante dei corpi e dei volumi, come mezzo emozionale, non lontano dunque dal primo Leoncillo, che in qualche modo lavorava su un binario parallelo, seppure metodologicamente diverso, in quanto la deformazione nel suo caso deriva dal colore, che trasudando dal corpo si fa massa e lo deforma. All’inverso per Mirna il colore è impiegato in forma neutra, a dominare è quasi sempre il bianco, quasi ad evidenziare lo stato di purezza dei soggetti che lei espone. È una caratteristica rara negli scultori di ceramica che non sempre sanno evitare la tentazione cosmetica del colore, che è infatti un’arma potente nella narrazione poetica di un soggetto, tuttavia l’elemento di naturalità, nelle sculture della Manni, ha sempre il sopravvento e tendenzialmente è risolto in un cromatismo in bianco e nero, con rare sgocciolature o puntinature di colore al naturale, su forme essenzialmente originarie, talvolta disegnate come profili sintetici. Nelle due installazioni qui presentate: Deformation everywhere (2022) e Natura violata (2021), ricorrono gli elementi sopra individuati ai quali si aggiunge un valore nuovo: l’oscurità. Le due installazioni, infatti, trovano la loro massima espressione se inserite in un contesto in cui la luce è drammatizzata, l’artista in questo modo non solo tende a ricostruire una scena teatrale, che per la purezza cromatica appare neoclassica, ma usa l’imbrunire come elemento simbolico, innovativo e inedito nella sua produzione. Un elemento, quest’ultimo, che rievoca alla memoria soluzioni di un naturalismo quasi caravaggesco, dove la messa a fuoco luminosa della scena degrada dal chiarore alla penombra, senza tuttavia impedire di scrutare la scena proprio nell’oscurità, dove anzi si svolgono le azioni. La scultura di Mirna Manni coniuga questo dato di natura con un’impostazione scenica classica, impiegata per raccontare il presente drammatico del nostro tempo, che in queste due opere appare con toni post apocalittici e devastanti, in cui ai pochi superstiti non resta che il ritiro solitario e disperato. Una narrazione mai urlata, semmai sussurrata dove anzi il silenzio prelude allo sviluppo del pensiero, procedendo per metafore simboliche, dove la natura si fa corpo e le violenze perpetuate su di lei si riverberano necessariamente sull’uomo. Anche l’imbrunire ha una valenza metaforica, un’oscurità che colpisce la società, che ne turba i valori, isola e divide le persone abbandonandole. L’ombra, dunque, come sinonimo di perdita di quella luce della ragione, che gli anni duemila non hanno ancora saputo accendere.
Sarebbe tuttavia parziale leggere queste opere solo dalla prospettiva di una critica senza via d’uscita. La fiducia dell’artista nelle possibilità evolutive dell’uomo appare proprio dall’imbrunire, da quel naturale ciclo di tramonti ed albe che si susseguono ininterrottamente dalla notte dei tempi. Cercare l’alba all’interno dell’imbrunire sembra un ossimoro, una negazione in termini, tuttavia, sono due dati di natura che si alternano incessantemente, ognuno esclude e allo stesso tempo contiene parte dell’altro. Entrate in questa nuova logica è il preludo di una diversa consapevolezza che necessita tuttavia di una modificazione deformante del punto di osservazione, del comportamento e dell’azione. Solo dopo questo passaggio evolutivo, di consapevole coscienza dell’uomo, il lavoro di Mirna Manni ci apparirà sotto una diversa luce, quella di una nuova alba.
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